La Turris come la storia di Apollo e Dafne: quando la morte diventa l'unica via di fuga e... di rinascita!
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C’era una volta Apollo e c’era una volta Dafne. Un amore a senso unico, un’ossessione che si fece persecuzione. Dafne, consapevole che non avrebbe mai potuto sfuggire all’ira e alla brama del dio, mosso da un amore non corrisposto e pertanto convertitosi in insistenza/violenza, invocò il padre affinché la liberasse dall’inevitabile destino. Fu così che la ninfa divenne un albero di alloro, pur di sottrarsi alla volontà di Apollo. Meglio la morte, o qualcosa di simile, che la prigionia di un amore mai voluto.
Oggi, nella triste realtà del calcio italiano, la Turris sembra aver preso il posto di Dafne. Ma stavolta non si tratta di un amore respinto: qui il sentimento è stato per lungo tempo autentico, appassionato, puro. Solo che adesso, chi la detiene non la ama, la usa. E chi la ama davvero – i tifosi – non ne può più. La loro invocazione di eutanasia sportiva è il grido disperato di chi sa che non c’è più salvezza e che l’unico atto di pietà possibile è la fine.
La Turris è ostaggio da mesi di una gestione che si regge su espedienti, su rinvii continui della resa, sulla ricerca disperata di liquidità che possa garantire un’agonia più lunga. Ma non c’è più dignità in questa resistenza. Ogni mese che passa è un nuovo colpo inferto a una storia che meriterebbe rispetto, non un’agonia prolungata per calcoli finanziari e giochi di sopravvivenza societaria. L’obiettivo sembra essere chiaro ai più: arrivare a fine anno, prendere la fideiussione e poi calare il sipario.
Eppure, chi vive per questi colori non vuole assistere a un supplizio senza fine. I tifosi invocano la morte, sì, ma solo perché la rinascita possa davvero cominciare. Meglio chiudere ora, piuttosto che essere trascinati in un lento martirio fino a giugno. Meglio recidere il legame con chi oggi tiene la Turris in ostaggio, piuttosto che rimanere spettatori impotenti di una lenta dissoluzione.
La Turris, come Dafne, chiede di essere liberata. Non c’è più speranza di salvezza, se non nel sacrificio finale. Perché a volte, per rinascere, bisogna prima morire.